Racconto: La leggenda delle tre anime

Una leggenda narra che le anime degli esseri siano grossomodo di tre tipi diversi. Le prime, che gli uomini chiamano “Beate”, sono le più leggere e, di gran lunga, le meno comuni. Sono capaci di comunicare benissimo con tutte le altre, malgrado le differenze, e perfino con gli oggetti inanimati che, pur non potendo ascoltare alcunchè, tuttavia comunicano qualcosa a queste anime elette.

Le seconde, che gli uomini chiamano “Sorde”, sono le più diffuse: esse, profondamente chiuse in se stesse, vagano interagendo con le altre solo nella misura in cui possa tornargli comodo, e dunque non interessandosi che a loro stesse. Vi sono poi le ultime, a cui gli uomini si riferiscono con disprezzo e senza avergli mai dato un nome: le anime del terzo tipo non sono rare quanto le prime, né comuni come le seconde, ma sono le più pesanti di tutte. Esse sopportano una gran pena, girando all’infinito mentre si rodono, piene di odio, verso se stesse e le altre, quasi incapaci di perdere peso, cosa che potrebbe innalzarle di rango, ma quasi infallibili nell’accumularne sempre di più, costantemente.

Gli uomini, credendo di possedere il punto di vista onnisciente di chi tutto sa, ma non sapendo cosa ci sia o no in un essere diverso da loro, si arrogano spesso e tuttavia il primato di essere gli unici esseri in cui vi sia un’anima. Non essendo io, a mia volta, onnisciente, non posso fare luce sulla questione, tuttavia è probabile che alcuni tipi di anime siano preclusi a certi tipi di esseri (E non mi stupirei se mi dicessero che non vi è, tra gli uomini, qualcuno che abbia un’anima del primo tipo).

Facendo orecchie da mercante a ciò che pensano gli uomini, racconterò una storia che ha per protagonisti tre animali, ma che a mio avviso mostrerà bene ciò che vuol dire la leggenda che ho appena raccontato. Essa riguarda un canarino, un pettirosso e un passero.

Un giorno un canarino decise di allietare la giornata dei suoi due compari con un canto che non aveva mai pensato prima, del cui suono il pettirosso e il passero furono ben lieti, e furono presi da un profondo affetto e da una sincera ammirazione per il loro amico. Tuttavia, prima che la melodia fosse finita, nel cuore del passero sorse un’invidia incontenibile per il fatto che il suo amico stesse cantando meravigliosamente per loro, mostrando così il suo buon cuore, così luminoso che gli pareva gettasse ombra sul suo. E a ogni nuova nota intonata dal canarino il suo cruccio aumentava, e la musica che poco prima gli pareva come acqua fresca adesso era un fuoco che lo dilaniava. Il pettirosso, da parte sua, oltre a godere del dono del suo amico non pensava ad altro; né che egli era stato buono con loro nel fargli quel regalo, né era invidioso come il passero. L’anima del canarino, che con tanta spontaneità aveva abbracciato quelle degli amici, si fece più leggera, rendendolo ancora migliore di quanto fosse prima.

Il giorno successivo il passero si recò dal canarino e gli disse: “Caro amico, vorrei ricambiare il favore e deliziarti con una nuova melodia di mia invenzione, affinché tu gioisca come ho fatto io ieri”. Così intonò una melodia ancor più sublime di quella del canarino, ma che, nella giocosità e nella raffinatezza del tema, celava note di rancore e odio perfettamente subliminali: non era il canto spontaneo del canarino, ma aveva qualcosa di studiato e di escogitato a priori. Egli non aveva composto quel canto per la gioia degli altri due, ma per mostrare come fosse tecnicamente migliore di loro e, soprattutto, per ingraziarsi il canarino a spese del pettirosso, che ancora non aveva cantato nulla. Essendo questi i suoi intenti, la sua anima si appesantiva sempre di più a ogni suono che emanava, trascinandolo ancor più nell’odio e nell’oblio. Il suo proposito però fu esaudito: il canarino prese a cuore più lui che il pettirosso che, mentre i due divenivano più intimi, veniva allontanato.

Il pettirosso iniziò così a straziarsi, e la sua solitudine gli sembrò profondamente gravosa, a lui che fino a quel momento non aveva pensato che a se stesso, che godeva dei doni altrui ma non ricambiava, che aveva sempre pensato che soli si sta meglio, perché non si ha il dovere di dover pensare agli altri. Così iniziò a trascurarsi e a non pensare nemmeno più a se stesso, prese a starsene tutto il giorno solitario nel suo nido, senza curarsi neppure di procurarsi il cibo e rischiando così di morire di fame.

Dopo un po’ il canarino iniziò a domandarsi dove fosse finito il suo compagno e prese congedo dal passero per andare a cercarlo. Lo trovò in fin di vita nel suo nido e ne fu profondamente turbato, volò allora veloce come poche volte aveva fatto in vita sua, procurandosi una foglia di fico che riempì di acqua e qualche insetto fresco, rivelando ottime doti da cacciatore. Quando tornò, poco dopo, dal pettirosso, quest’ultimo trangugiò con appetito ciò che l’amico gli stava offrendo e, riprese le forze, si rese conto finalmente di quanto possa essere importante l’aiuto reciproco, il non pensare esclusivamente a se stessi, l’affetto di chi non vuole lasciarci andare. Fu profondamente scosso da questi pensieri e dentro di lui avvenne un’autentica rivoluzione, e finalmente gli uscì da dentro un canto così spontaneo, così genuino e splendido che neanche si rese conto fino in fondo di stare cantando. Era il canto migliore che un pettirosso avesse mai intonato, e il canarino si commosse. Così l’anima del pettirosso si alleggerì moltissimo e arrivò a pesare esattamente quanto quella del suo amico canarino. I due divennero migliori amici e non si persero di vista mai più.

 

 

Poeta della Serra

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